1855 Cholera morbus

Vita e morte ai tempi del colera

1. La vita quotidiana
2. La preghiera
3. La battaglia dei meloni
4. L'amore al tempo del colera
5. La grande fuga
6. Il morbo in versi
7. La morte

1. La vita quotidiana
Quando nella primavera del 1855 scoppia l'epidemia di colera, Bologna sta attraversando un momento molto difficile: la città è occupata dagli austriaci, che puntellano il logoro potere pontificio, e l'economia risente della profonda crisi del settore tessile che aveva portato ricchezza e lavoro nei secoli precedenti.
Come si viveva in una città di poco più di 70.000 abitanti, dove ogni giorno decine di persone venivano colpite dal colera (si arrivò a 169 casi registrati in un solo giorno, il 12 luglio), e la maggior parte di queste morivano dopo poche ore o al massimo dopo pochi giorni?
Per cercare di capire come i bolognesi affrontassero una realtà così drammatica, si deve ricordare che il cholera morbus era una malattia misteriosa e incontrollabile, che rendeva le comunità colpite totalmente indifese, assillate dalla paura di una morte atroce che poteva cogliere chiunque e all'improvviso.
Molti, avendone le possibilità, fuggivano, isolandosi nelle case di campagna, mentre in città tra il popolo si diffondevano voci incontrollate di avvelenamenti di massa, messi in atto dagli aristocratici per eliminare i meno abbienti.
Di fronte al rischio della morte imminente, molti si affidavano alla fede, partecipando a processioni e preghiere pubbliche dedicate a immagini sacre che già in passato avevano salvato la città dalla peste, mentre c'era chi si rifugiava in una rassegnata apatia; altri, come spesso accade nei momenti tragici, approfittavano delle circostanze per fare affari, lucrando sulle debolezze e sui bisogni del prossimo.
Paura ed angoscia modificavano i normali rapporti tra le persone, le abitudini alimentari, la vita di tutti i giorni: anche se non se ne avevano le prove, si pensava che il colera potesse essere contagioso, e dunque si limitavano i contatti personali non indispensabili, così che un gesto normale come stringere la mano poteva scatenare il dubbio angoscioso di avere contratto la malattia.
Si evitavano i cibi che si credeva potessero favorire l'insorgere della malattia, come i fichi, i meloni e i cocomeri. Si invitava il popolo a moderare gli eccessi alimentari, il che doveva sembrare piuttosto singolare a chi da sempre era costretto a tirare la cinghia.
Chi poteva permetterselo, portava sempre con sé un flacone di spirito canforato, per proteggersi dall'aria che si credeva corrotta da misteriosi miasmi.
Le scuole vennero chiuse anzitempo, le fiere e i mercati sospesi, gli spettacoli teatrali annullati.
Informazioni sulla vita quotidiana al tempo del colera si hanno da lettere, cronache, diari e dalle relazioni ufficiali, mentre poche sono le notizie che trapelano dai giornali, sottoposti a rigida censura.
Nel caso dell'epidemia del 1855 risultano particolarmente interessanti alcune pagine di un romanzo, una fonte di per sé atipica rispetto alle fonti tradizionali; si tratta di un'opera ambientata nella Bologna del colera, scritta nel 1856, solo pochi mesi dopo la fine del flagello, da un avvocato bolognese, Enrico Farnè. Questo libro, di cui si è già trattato nella sezione dedicata all'omeopatia, offre squarci di grande interesse sulla realtà quotidiana a Bologna durante l'epidemia e la precisione dei riferimenti forniti dall'autore lo rendono uno strumento prezioso per ricostruire l'atmosfera che si viveva in città in quella terribile estate del 1855.

Camera con vista sul lazzaretto
Anche nei momenti più difficili la vita continua e si pensa agli affari e al futuro. Gli abitanti della zona del Pratello, dove era situato il grande lazzaretto dell'ex monastero dei Santi Lodovico e Alessio, a epidemia quasi conclusa protestarono: non era facile affittare appartamenti nei pressi di un luogo dove ogni giorno transitavano decine di cataletti che trasportavano malati e cadaveri, e ne chiedevano quindi lo spostamento.

A Sua Eccellenza Il Sig. Mse Davia Senatore di Bologna
Eccellenza
Li possidenti, ed abitanti delle Strade Pratello, S. Isaia, e Borghetto di S Francesco hanno insinuato un mese fa all'Illma Commissione Provinciale di Sanità un loro collettivo ricorso firmato da ben 30 interessati, i quali desidererebbero che al cessare del morbo fosse altrove traslocato il Lazzaretto che resta fra esse strade, sperando che in sito più discosto dai fabbricati ed in sito spazioso venisse stabilito anzicchè fra tante case abitate. Nel ricorso si accennano i motivi del reclamo, i danni nell'appigionare gli Appartamenti, la vista poco grata de' trasporti de' vivi, e de' trapassati, e siccome la Comm.e prefata non ha presa alcuna risoluzione, così pregano la Saggezza di Vra Eccza a voler provvedere al reclamo. Mi onoro ossequiarla Per li Reclamanti, ed in nome loro Filipp'Alfonso Fontana altro de' medesimi.
Di Vra Eccza
Li 25 ott. 1855
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 929.

In effetti l'area era densamente popolata e non adatta ad ospitare un lazzaretto, ma la mancanza di conoscenze sulle modalità di diffusione della malattia non consentirono di fare scelte più appropriate.
Non si sapeva, ad esempio, che le mosche trasmettono il vibrione posandosi sugli alimenti dopo essere state in contatto con materiale infetto. La posizione centrale di San Lodovico era d'altronde molto comoda per il ricovero dei malati dai quartieri più lontani e per la vicinanza della camera mortuaria di San Rocco.
La zona del Pratello, dove si erano verificati quattro casi di colera già nel 1854, fu una delle più colpite dall'epidemia del 1855.

2. La preghiera
Nel mese di luglio, mentre il colera imperversava, una grande folla portò in processione la statua della Beata Vergine del Soccorso di Borgo San Pietro fino alla Basilica di San Petronio.
Nonostante la diffusa convinzione che gli assembramenti di folla potessero aumentare i rischi di contagio, non si ritenne opportuno vietare processioni e preghiere pubbliche, per non correre il rischio di esasperare il popolo che affidava la propria salvezza alla venerazione di immagini sacre, che già in passato avevano salvato la città dalla peste, ed in particolare la Beata Vergine del Soccorso di Borgo San Pietro, la Beata Vergine del Pianto della parrocchia di Sant'Isaia (che fu vista piangere, ripetendo il prodigio del 1630, quando infuriava la peste) e la Beata Vergine di San Luca.

Vera Effigie di S. Maria del Soccorso che si venera dalla di lei Confraternita a capo il Borgo di S. Pietro, e per cui l'anno 1527 cessò il contagio...
Ioachinus Pizzoli Academicus Clementinus
Collocazione: G.D.S. AA.VV. Cart. XVIII. 125.
L'immagine della Beata Vergine del Soccorso di Borgo San Pietro fu tra le più venerate dai bolognesi durante l'epidemia di colera del 1855. Nel corso dell'epidemia di peste del 1527, la statua lignea della Beata Vergine del Borgo fu portata in processione per implorare la fine dell'epidemia. Cessato il morbo, si diede alla Madonna del Borgo il nome di Madonna del Soccorso.



Il romanzo

Quindi tutte le vie che dal Borgo San Pietro vanno alla basilica di San Petronio erano addobbate, e con queste dimostrazioni di culto esterno ciascuno faceva mostra della fede che aveva in questo ricorso.
  • Enrico Farnè, Teresina Rodi e un medico omeopatico, cit., p. 360.

La cronaca

8 luglio 1855: Il popolo, disposto sempre a credere ne' miracoli e nelle grazie della B. V., ha voluto ad ogni costo, trasportare con grandissimo accompagnamento la B. V. di Borgo S. Pietro, sotto l'invocazione della B. V. del soccorso, nella Basilica di S. Petronio, onde voglia liberare la Città dal terribile morbo. […] La Commissione Sanitaria vi si opponeva gagliardamente, ma invano, perché Mons. Commissario, ed il Governo militare Austriaco, hanno permesso il trasporto […].
  • Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, Bologna, cit., v. II, p. 335.

Eccellenza
Ad ottenere dalla Divina Misericordia la liberazione dal flagello che ci perquote l'Ammne [Amministrazione] del Santuario di Maria SSma del Soccorso è stata autorizzata, di esporre alla venerazione de' Fedeli nella Basilica di S. Petronio la Prodigiosa Immagine di M.a SSma del Soccorso per tutta la veniente settimana ed alle spese necessarie si dovrà sopperire colle offerte che si raccoglieranno dai Fedeli. Tanto l'Ammne [Amministrazione]si tiene in dovere di partecipare all'E.V., e un profondissimo ossequio si protesta. Di vostra Eccellenza. Bologna 8 Luglio 1855.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 228.

Gli abitanti di alcune vie collocarono lapidi per ringraziare la Madonna di essere stati risparmiati dal colera.
Fotografia di Roberto Ravaioli

In via Ca' Selvatica n. 6, si trova invece un'edicola votiva con alla base una lapide che riporta questa iscrizione:
Gli abitatori di questa via immune nel MDCCCLV dal morbo asiatico che desolò la città tutta quanta riconoscono da te o divina la grazia e piamente t'adorano.


3. La battaglia dei meloni

Nella fase acuta, il colera si manifesta con violente scariche di diarrea e vomito (stadio delle grandi evacuazioni).
Per questo motivo si pensava che fosse importante evitare gli alimenti considerati indigesti, che potevano facilitare l'insorgere del colera, ed in genere non abbandonarsi ad eccessi alimentari.
Tra gli alimenti più colpiti dai provvedimenti adottati dalla Commissione vi furono certamente i meloni e i cocomeri, di cui a Bologna le classi popolari facevano un largo consumo:

[…] di facile fermentazione […]. possono grandemente indisporre il tubo gastro-enterico, ed indurvi una condizione omogenea alla malefica influenza
(Commissione Provinciale di Sanità, Circolare n.1336 del 9 agosto 1855).

La vendita fu vietata e i campi di meloni distrutti, con grave danno dei contadini che furono costretti a rinunciare ad una importante fonte di reddito, come documenta la lettera inviata da Tommaso Pancaldi di Bertalia al senatore Davia.
Nella Circolare n. 1336 non si faceva riferimento a rimborsi per le "melonaie" distrutte, ma si invitavano gli agricoltori ad accettare di buon grado i sacrifici richiesti in nome del bene comune.
I cibi grassi invece, considerati adatti all'alimentazione preventiva anticolerica, ottennero la dispensa dalle autorità ecclesiastiche per essere consumati anche nei giorni di astinenza dalle carni (il venerdì e in altri giorni prescritti), secondo quanto previsto da uno dei precetti generali della Chiesa cattolica.

La relazione ufficiale

Non di rado difatti vedemmo nei giorni successivi alla domenica, od al lunedì, od ad altro giorno, in cui il basso popolo è solito a crapulare, aumentare il numero dei colpiti. Un cibo indigesto, carni salate, fagioli, cavoli, insalate, frutti verdi e i così detti freddi come i melloni, cetriuoli ecc. furono sovente accusati esserne stata causa; […].
  • Il cholera morbus nella citta di Bologna l'anno 1855, cit, p. 393.

Il romanzo

[...] Perché dicono che il latte fa male! fa venire il colera! Io per me le ritengo tutte corbellerie! [...]io mangio il popone, condisco le vivande colle solite salse, col pomodoro; mangio fichi col salame, eppure sono qui, grazia a Dio, sana e salva!
  • Enrico Farnè, Teresina Rodi e un medico omeopatico, cit., p. 68.

A Sua Eccellenza Il Signor Marchese Luigi Davia Senatore di Bologna
Tommaso Pancaldi di Bertalia, di condizione bracciante, avendo in quest'anno preso a coltivare una mellonara nella comune di Beverara, in terreno di ragione del N. U.Sig. Mse Giuseppe Mazzacurati in luogo detto Battiferro, essendo stato costretto in obbedienza alla Legge di disfare totalmente il predetto mellonaio, il di cui ricavato di p.r. avrebbe potuto somministrarle il mantenimento proprio, della moglie e dei vecchissimi suoi genitori impotenti al lavoro. Per la superiore disposizione emanata al momento in cui il ricorrente poteva ritrarre il lucro della fatica sua, e di quella della propria famiglia, sostenuta per ben quattro mesi, anima il ricorrente a rivolgersi alla pietà dell'E. V. onde riparare in parte il danno gravoso sofferto in causa della predetta disposizione, e nella certezza di vedersi dalla E. V. graziato gli ne anticipa i più distinti ringraziamenti, che della grazia.
[Protocollata in data 28 agosto 1855].
Risposta, sul verso: Non essendo stata del Cons. la disposizione ma sibbene della Illustriss. Commissione Ple di Sanità, non è del comune l'occuparsi della dimanda.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. Prot. 577.


4. L'amore ai tempi del colera

130 anni prima della pubblicazione del celebre romanzo L'amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, l'avvocato Enrico Farnè, scrittore per diletto ("non so scrivere come Massimo d'Azeglio", ammette), ambienta una cupa storia d'amore nella Bologna atterrita dall'epidemia del 1855. Le tragiche vicende di Teresina (orfana, vessata dalla zia maligna, sedotta da un nobile senza scrupoli e destinata a morire di colera tra le braccia dell'amato) sono solo il pretesto per rendere omaggio alla figura del medico omeopatico Alfonso Monti (Alfonso Monty nel romanzo) che curò e salvò le figlie di Farnè colpite dal colera.

Enrico Farnè
Teresina Rodi e un medico omeopatico all'epoca del colèra in Bologna: romanzo storico Firenze, a spese dell'editore, 1856

La prima illustrazione del romanzo, nell'antiporta, mostra il popolo bolognese in subbuglio per il timore che l'epidemia altro non sia che un avvelenamento di massa ordito dagli aristocratici, con l'aiuto dei medici.

Le parti più interessanti del romanzo sono quelle dove si descrive la vita quotidiana al tempo del colera, in una città dove ogni attività era condizionata dal timore del morbo. Si descrivono le processioni e le condizioni miserevoli dei quartieri più colpiti, l'inquietante andirivieni di cataletti che trasportano i malati e le speculazioni di affaristi senza scrupoli sui rimedi considerati più efficaci.
Il tema dell'avvelenamento ricorre in Italia per tutto l'Ottocento durante le varie epidemie di colera, e si spiega con il bisogno di individuare le cause o semplicemente un capro espiatorio, di un evento del tutto incomprensibile e terrorizzante.
A tranquillizzare gli animi non contribuiva il fatto che molti bolognesi benestanti fossero fuggiti dalla città e che le zone più popolari e degradate fossero le più colpite dal morbo.

La cronaca

18 giugno 1855 Parlasi di avvelenamenti e di progetti di togliere dal mondo i poveri! Orribili sogni e stoltezze di popolo ignorante, e pieno di pregiudizii, tenuto in questa condizione da chi avrebbe la missione di istruirlo e di illuminarlo.

 

25 giugno: Nel frattempo l'autorità Austriaca ci porge aiuto, inviandoci da Venezia (già da tempo infetta dal morbo) non poca soldatesca [...]. Da questo momento in avanti, sia caso, o sia effetto di contagio, la malattia si spande in maggiori proporzioni.

  • Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, cit., v. II, p. 333-334.

Per Bottrigari non è da escludere l'ipotesi che un forte contributo allo sviluppo dell'epidemia sia dovuto a contingenti di truppe austriache provenienti dal Veneto, dove il colera imperversava.

5. La grande fuga
Siamo a settembre, quindi cinque mesi dopo lo scoppio dell'epidemia quando Luigi Frati nella sua lunga ed affettuosa lettera all'amico Lodovico Bolognini Amorini, parla di Bologna e della situazione angosciante e tragica che induceva tanti come lui ad abbandonarla per riparare in campagna e cercare, in questo modo, di sfuggire all'incombere della malattia. Nel contado, però, la situazione non era così rosea e apprendiamo sempre dalla sua penna che anche lì cominciavano a verificarsi casi prima isolati, poi sempre più diffusi e vicini tanto da costringere la famiglia Frati a rifare il percorso inverso, cioè a riparare in città.
Fornisce anche all'amico molte informazioni e aggiornamenti sulle vicende di comuni amici e di autorità cittadine sostituite proprio a causa dei molti decessi avvenuti.
Francesco Majani (1798-1865), capostipite di una dinastia di imprenditori dolciari ancora attiva a Bologna, descrisse nel suo diario (Francesco Majani, Cose accadute nel tempo di mia vita, a cura di Angelo Varni, Venezia, Marsilio, 2003) con molta efficacia la paura e la sensazione di precarietà provata dai bolognesi durante l'epidemia:
Nella primavera di quest'Anno 1855 Sviluppò il Colera che tutti avevano una gran paura […] era veramente un brutto vivere così sempre col convulso, che da un momento all'altro si andava all'altro Mondo.

Il romanzo

[...] ma intanto chi va alla Certosa? Sono centinaia di poveri tutti i giorni; ed i signori? I signori, o se ne sono andati a viaggiare, o se ne sono fuggiti alla campagna a godere entro le loro ville ogni sorta di distrazioni, e di belle delizie.
  • Enrico Farnè, Teresina Rodi e un medico omeopatico, cit., *

La cronaca

Luglio La Città sembra deserta: oltre la solita emigrazione d'ogni anno per le campagne, le acque, i bagni etc moltissimi sono partiti per recarsi in lontane regioni. Vuolsi che il numero de' partiti ascenda a bel 20 mila; langue quindi il commercio e le industrie pure [...].
  • Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, cit., v. II, p. 336.

Lettera di Luigi Frati a Lodovico Amorini Bolognini, da Bologna, il 4 settembre 1855
Spedita da Bologna il 7 settembre, giunta a Milano l'8 e respinta a Bologna, dove è giunta l'11, come si rileva dai vari timbri postali. La lettera non fu letta per la sopraggiunta morte di colera del destinatario, avvenuta il 6 settembre.
Collocazione: Carteggio Luigi Frati. cart. VIII. n 43.

Lettera di Giovanni Gozzadini al Conte Bennassù Montanari, da Ronzano il 25 novembre 1855
Collocazione: ms. Gozzadini. 439/2a. n. 102.

[...] Quando cominciò l'epidemia ci rifugiammo in questo romitorio, il quale appunto fu rifabbricato nel secolo XV quale asilo in tempo di peste e restò immune da quella che menò tanta strage nel 1630. La Dio mercé Ronzano conservò in quest'anno funesto la propria fama ed oggi intonammo il cantico di ringraziamento. Nel crescere del morbo stabilimmo una rigorosa clausura e cessammo ogni comunicazione diretta colla città e coi cittadini, quindi passammo alcuni mesi in una perfetta solitudine che non s'increbbe e non ponemmo piede fuori dell' angusti fondo arranziano. [...] LEGGI TUTTO

Giovanni Gozzadini ci descrive in tono informale quanto la situazione della diffusione della malattia tra giugno e luglio 1855, fosse drammatica in città tanto che, oltre alla solita migrazione stagionale verso i luoghi di villeggiatura, si aggiunse la partenza di migliaia di persone che cercavano di sfuggire alla malattia rifugiandosi nel contado. Chi poteva, come nel caso della nobile famiglia Gozzadini, si trasferiva nella propria villa di campagna.
Dal 16 giugno 1855 infatti i Gozzadini si stabilirono presso l'eremo di Ronzano, di loro proprietà, vivendo in tanta solitudine da far dire alla moglie Maria Teresa Gozzadini in un'altra lettera sempre al cugino Bennassù:

[…] noi siamo a Ronzano [... ]e viviamo in solitudine così severa che non abbiamo veduto persona fuorché il sacerdote che viene nei giorni festivi a dir la messa. LEGGI TUTTO

Solitudine riempita, è sempre il Gozzadini che ci informa in questa lunga e immaginifica lettera, dalle occupazioni più varie tra cui l'uso di un potente telescopio con il quale spiavano le dimore degli amici vicini, la città un po' più lontana e tutta la pianura dal Mar Adriatico fino addirittura all'arco alpino.

6. Il morbo in versi
Il colera ispirò anche numerosi componimenti poetici, primi fra tutti i 34 sonetti scritti in dialetto romanesco da Giuseppe Gioachino Belli tra il 1835 e il 1836, dal titolo Er còllera mòribbus.
Anche a Bologna si scrissero vari componimenti, tra i quali sono stati scelti alcuni versi manoscritti in dialetto bolognese, di grande efficacia nella loro semplicità, un motto scherzevole e una breve poesia scritta da Carlo Pepoli nel 1856.
L'inefficacia dei metodi ufficiali di guarigione fece proliferare tutta una serie di motti, mottetti, filastrocche, finte orazioni che avevano come unico scopo quello di esorcizzare, con l'arma dell' ironia, una paura tanto profonda quanto ingestibile. Un allegro ritornello in dialetto è quello che ci vuole per mandare a farsi benedire malattia, morte e… speranza di farcela!

Me a sper c'an vegna
e s'al ven c'an me tocca
s'an tocca a sper d'an murir
e se a mor vat far benedir
[Io spero che non venga / E se viene che non tocchi a me / Se mi tocca spero di non morire / E se muoio vai a farti benedire!]

Collocazione: ms. B.2888, Documenti sul Cholera Morbus, p.te I.

Carlo Pepoli. Il morbo asiatico in "Albo felsineo. Strenna del 1857"
Bologna, Tipi Governativi della Volpe e del Sassi, [1856], p. 119 Collocazione: Malvezzi. 569.

Motto scherzevole per preservarsi dal cholera
Recipe un grano d'indiferenza
un po' d'estratto di impazienza
Aborrimento d'ogni questione
Da zelo infausto dall'ambizione
cerca due oncie di società
et quantum sufficit d'illarità
Ma sempre schietta senza artifizio
due dramme aggiungivi dell'esercizio
due buoni grani di derisione
scevri di cure e d'ogni opinione
mescola il tutto fallo bollire
e in questo modo ten dei servire
Bevine un nappo di buon mattino
questo dicendo motto carino
fiat voluntas tua

La paura sul palco
Se non si potevano vietare le processioni per non turbare gli animi, si limitarono comunque le feste (come la corsa del Pallio) e gli spettacoli, allo scopo di evitare assembramenti ritenuti pericolosi per il rischio di contagio.

"Teatri arti e letteratura", a. XXXIII, t. 63, n. 1599, 11 agosto 1855, p.198
In questa pagina compare il misterioso timbro che fu utilizzato esclusivamente in luoghi colpiti dal colera, tra il 1854 e il 1855.
Le riviste teatrali riportavano spesso notizie di spettacoli annullati, ma anche di attori deceduti a causa del morbo, come in questa pagina della rivista "Teatri arti e letteratura", scelta anche perché compare in alto a sinistra e nella pagina successiva, in alto a destra, un misterioso timbro che fu utilizzato esclusivamente in luoghi colpiti dal colera, tra il 1854 e il 1855.

Un dubbio postale: il melograno di Bologna

Tipologia del bollo
Bollo ovale in orizzontale contenente un'immagine fitomorfa: il frutto del melograno all'inizio della maturazione.
Nell'ambito della Storia Postale viene definito "bollo muto" in quanto privo di indicazioni di luogo.
Uso del bollo
È presente su numerosi documenti amministrativi, come pure su lettere e fascicoli di periodici inviati per posta.
Periodo d'uso
Dalla fine del 1854 all'ottobre 1855, durante la seconda grande epidemia di colera in Italia.
Interpretazioni
In passato: Bollo di archiviazione di documenti e lettere dirette ad autorità. Più di recente: Bollo di avvenuta disinfezione.
Tipologia degli oggetti bollati
Su numerosi documenti amministrativi e su lettere nascenti e dirette in città, oppure provenienti da altre città dello Stato Pontificio. Pochi documenti presentano, oltre il bollo, tagli di disinfezione mentre la maggioranza di questi ne è priva in quanto, pervenendo alla Sanità già aperti, non necessitavano dell'azione meccanica dei tagli per essere sottoposti a fumigazione con vapori di cloro.
È nota la presenza del bollo e dei tagli su lettere circolanti nell'ambito della città o suo territorio limitrofo e, ancora più evidente, su lettere provenienti da altre città pontificie.
Considerazioni
Per le ragioni sopra esposte, viene inserito di diritto nella grande tipologia dei bolli comprovanti l'avvenuta disinfezione, nonostante rimanga misteriosa la sua origine.
Scheda a cura di Alberto Cavalieri

7. La morte ai tempi del colera

Nel 1855 nel cimitero comunale della Certosa furono sepolte più di 7.000 persone. Dunque la Deputazione Straordinaria di Sanità dovette affrontare una vera e propria emergenza legata alla gestione dei cadaveri, più che raddoppiati rispetto ai decenni precedenti. In realtà l'emergenza fu ancora maggiore se si considera che fu concentrata in un periodo relativamente breve, dato che nel solo mese di luglio i morti furono 2.371.
Il problema non era soltanto di garantire una degna sepoltura per tutti, ma anche di limitare l'impatto psicologico che la morte di tante persone poteva avere sullo stato d'animo dei bolognesi. Si decise quindi di far transitare i cadaveri dagli ospedali direttamente alla camera mortuaria di S. Rocco, senza farli passare dalle rispettive parrocchie, e di non fare suonare le campane per i defunti. Non è difficile immaginare come il suono continuato delle campane a morte potesse aumentare l'angoscia ed il terrore dei vivi. Già prima dell'epidemia il trasporto dei cadaveri alla camera mortuaria e da S. Rocco alla Certosa non era mai effettuato di giorno: la morte andava occultata, tanto più in tempo di colera, e così i carri funebri (i cataletti) si distinguevano dai mezzi che trasportavano i malati nei lazzaretti soltanto per la presenza di una piccola croce.
Particolari disposizioni avevano l'obiettivo di tranquillizzare i bolognesi che, più della morte, temevano di essere sepolti vivi. Anche in questo caso, già prima dell'epidemia, i cadaveri venivano tenuti in osservazione per diverse ore, per poter certificare con sicurezza l'avvenuto decesso. Le caratteristiche del colera all'ultimo stadio (stadio del collasso: temperatura del corpo bassissima e pulsazioni impercettibili), contribuivano a alimentare la paura di finire anzitempo nelle camere mortuarie.
Nonostante l'alto numero dei decessi, non si fece ricorso a fosse comuni. Ogni corpo fu sepolto in una fossa unica, cioè individuale, all'interno dei campi già esistenti per chi moriva negli ospedali.
Non tutti i morti per colera confluivano alla Certosa, dato che erano ancora in funzione diversi cimiteri nelle frazioni fuori dalle mura (gli appodiati), come a San Ruffillo, dove la cronaca di Enrico Bottrigari segnala con orrore cadaveri insepolti e non cosparsi di calce disinfettante. Inoltre, da parte di molte famiglie benestanti vi furono richieste di poter seppellire i propri cari nelle tombe gentilizie. Così ad esempio lo stesso Bottrigari, che fece seppellire la madre, Maria Tadolini, morta di colera il 16 agosto, nella tomba privata posta alla Certosa.

Le sepolture
La statistica dei sepolti al Cimitero della Certosa dal 1801 (anno di apertura) al 1856 mostra l'impennata di sepolture (7071) avvenuta nel 1855: l'anno prima erano stati sepolti 3333 cadaveri, l'anno dopo saranno 3327, meno della metà. La mortalità nel 1855 fu del 9%, contro il 4% che si registrava normalmente, ma va anche considerato che Bologna nei mesi dell'epidemia contava diverse migliaia di abitanti in meno, fuggiti nelle campagne.
La Certosa era suddivisa in numerosi campi (cfr. la colonna di sinistra, con le lettere dell'alfabeto corrispondenti a ventidue recinti, riservati ad altrettante categorie di defunti). I morti di colera non furono sepolti in zone appartate, ma nei campi riservati a chi moriva negli ospedali: "F" per gli uomini, "G" per le donne. Da notare che i dipendenti pubblici, dal 1822 al 1867 venivano sepolti in un campo a loro riservato ("N").
I corpi venivano sepolti a cinque piedi di profondità (1,90 m, calcolato con apposita canna in dotazione agli scavatori), su uno strato di sabbia, e poi cosparsi con calce, prima di essere coperti da un altro strato di sabbia e poi di terra. La fossa per i morti di colera era più profonda di un piede (0.38 m) rispetto a quelle normali. Le inumazioni avvenivano, in genere, ponendo direttamente il corpo nella terra: le casse erano troppo costose e in pochi potevano permettersele. Per il trasporto alla camera mortuaria e ai cimiteri, il cadavere veniva invece sempre collocato in una cassa di legno.

Sepolti vivi: "Ahi, cadaveri son pria d'esser morte!"
C'era solo una cosa che spaventava più della morte: essere sepolti vivi. Filippo Pacini descrive chiaramente l'ultima stadio del colera, la morte apparente, quando prima del collasso finale il malato, algido e con le funzioni vitali ridotte al minimo, può essere creduto morto. Ad aumentare questo timore contribuivano in alcuni casi dei movimenti postmortali, con contrazione degli arti in strane posizioni, che facevano pensare a reazioni scomposte da parte di un sepolto vivo, nel tentativo di uscire dalla cassa.
Scrive Pacini, a p. 16:
In generale poi i cadaveri dei colerosi non dovranno essere trattati come veri cadaveri, se non che quando abbiano principiato a dare qualche indizio non equivoco di putrefazione: unico segno certo della morte.
Per questo motivo, e contrariamente ad ogni logica igienico-sanitaria, i cadaveri venivano tenuti in osservazione 24 ore (in piena estate!), con la cassa scoperta, prima di essere portati alla sepoltura. Da qui le proteste dei portantini che trasportavano i corpi nella nuova camera mortuaria, costruita in fretta e furia in luglio nella chiesa di San Rocco, accanto alla vecchia: la mancanza di finestre rendeva l'aria irrespirabile ed il selciato di sassi, senza scoli, non faceva defluire gli umori o liquidi che partono dai cadaveri (cfr. ASCBo, Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 280).

Filippo Pacini
Sull'ultimo stadio del colera asiatico o stadio di morte apparente dei colerosi e sul modo di farli risorgere, memoria del dott. Filippo Pacini
Firenze, N. Martini, 1871
(Estratto dal giornale medico "L'imparziale" del 16 agosto 1871) Collocazione: 10. Scienze Mediche. Na2. 2.

Gazzetta di Bologna, 18 settembre 1855, n. 212, p. 1.
Riporta un caso avvenuto a Ferrara di una bambina di due anni creduta morta di colera e posta accanto al cadavere di un parente, in attesa di sepoltura. All'ultimo momento fu salvata dalla balia, che la vide muoversi.
Collocazione: 17. D.

Repubblica Cisalpina. La Commissione di Sanità nel Dipartimento del Reno
Regolamenti discipline di sanità pel Cimitero Comunale di Bologna
[1801?] (Data di emanazione: Bologna, 22 germile anno 9. Repub. corrisponde al 12 aprile 1801). Segn: [1]8.
Il primo regolamento del cimitero della Certosa, emanato il 22 germile, anno 9 della Repubblica (12 aprile 1801), prevedeva già precise norme per evitare di seppellire persone in vita.
Articolo sesto. [...] tutti quelli, che cessano di esistere in seguito di non equivoca malattia, debbono essere sepolti dopo ore trenta, e non meno dalla loro morte (p. 9).

Lettera inviata da Camillo Azzaroni, arciprete e presidente della Commissione di Sanità dell'appodiato di S. Egidio a Paolo Predieri, presidente della Deputazione Comunale Straordinaria (senza data).
La lettera, dai toni disperati, segnala i problemi legati alle sepolture effettuate nei cimiteri delle varie frazioni poste intorno alla città, spesso troppo vicini alle abitazioni. Solo a partire dal 1 gennaio 1868 tutti i cadaveri del Comune di Bologna verranno sepolti alla Certosa, sopprimendo i cimiteri parrocchiali degli appodiati. Anche nelle camere mortuarie delle parrocchie i corpi venivano lasciati per 24 ore in osservazione.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 1591.
Illmo Sig. Conservatore
Ieri ho avuto tre morti, ed oggi n'avrò altri due, quindi cresce la necessità di portarne qualcheduno al Ricovero si perché il cimitero non è capace, si perché, ad onta della disciplina, moveremo il quel terreno fra le case un pericolo oltre i reclami che ricevo. Ella mi diede la speranza che avrebbe appagati gli ordini ed oggi insisto colla più viva preghiera perché la speranza sia in giornata realtà. In 16 giorni i miei casi sono 45, dei quali 25 morti.
Da molto tempo i Fanti proveggono i suffumigi dal nostro speziale si perché comodo e discreto, e si perché si sapeva la massima di facoltizzarlo a somministrarli. E' bene farlo onde non si ricusi.
Aspetto la cassa mortuaria, e il cocchietto per S. Donnino, come alla notazione fece.
Sono contornato da miserie e da miserabili, e non solo non ho più un soldo per la beneficenza, ma vado creditore di qualche scudo. Per carità un sussidio che mi calmi il crepacuore di veder piangere e pregare.
Mi creda carissimo

Deputazione Comunale di Sanità
Modulo di denuncia di morte. Modulo di accompagnamento di cadavere

Collocazione: 17. Storia civile e politica. O. 1.
La Deputazione Straordinaria preparò e distribuì negli Uffizi di Soccorso diversi moduli da compilarsi nelle varie fasi dell'azione contro l'epidemia. Compilare correttamente i moduli, annotare con diligenza nei registri i nuovi casi di colera, seguire con precisione le direttive della Deputazione non significava solo fare burocraticamente il proprio dovere, ma era indispensabile per il buon funzionamento della macchina dei soccorsi e per non perderne il controllo.

Nella nota manoscritta, Paolo Predieri, presidente della Deputazione Straordinaria, trasmette a Francesco Maria Neri, membro della stessa Deputazione, la richiesta di stampare mille moduli di denuncia di morte per gli Uffizi di Soccorso: la data è il 19 luglio, l'epidemia aveva raggiunto l'apice.
I permessi di seppellimento, compilati quando il cadavere entrava nel cimitero, forniscono importanti informazioni sul defunto, dalla professione alla causa di morte.
In evidenza è la scheda del dott. Pietro Golfieri (n. 5845), giovane medico di 28 anni, morto di colera il 17 luglio mentre prestava servizio al lazzaretto del Ricovero.
Venne sepolto nel campo "F", riservato agli uomini che morivano negli ospedali, ma dove furono sepolti anche gli uomini morti di colera nelle proprie abitazioni.

Progetto di massima per il piano regolatore del Cimitero Comunale di Certosa (particolare) 1892

Cimitero della Certosa (parte esterna). L'ossario dei morti di colera
Fotografia non datata, prob. fine del XIX sec.
L'ossario è l'edificio circolare posto subito oltre le mura della Certosa, nell'angolo ad est, vicino al canale di Reno.
Nei primi decenni del Novecento l'area verrà inglobata dall'espansione del cimitero. Questa fotografia, più volte pubblicata, mostra l'edificio dove furono collocate le ossa delle vittime del colera.
Al momento non si hanno notizie di quando l'ossario fu costruito, né di quando fu abbattuto.
L'edificio, di forma circolare, compare in una pianta della Certosa del 1836, mentre non sembra essere presente in una mappa del 1829, e dunque potrebbe essere stato costruito tra queste due date. Risulta ancora presente in una pianta del 1911.
Normalmente i corpi venivano riesumati dalle tombe nel terreno ogni 10 anni, per cui si può presumere che l'ossario abbia ospitato le ossa dei morti di colera dopo il 1865.

Lettera di Carlo Raguzzi e della moglie, Carlotta Rapetti, al Senatore Luigi Davia per chiedere la sepoltura di Raffaele Rapetti nella tomba della famiglia Raguzzi e non nel campo degli ospedali.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 183.
Il professore Raffaele Rapetti (1813-1855), avvocato, giudice e professore di diritto criminale, è citato tra le persone celebri morte di colera nella lettera che Luigi Frati inviò a Lodovico Amorini Bolognini il 4 settembre 1855. Non fu sepolto nel campo ospedali, ma neanche nella tomba del cognato, come era stato richiesto dai familiari, bensì in un tumulo a parte. I ceti abbienti non gradivano che i propri cari morti di colera fossero sepolti in una semplice fossa del campo ospedali, per cui fu concessa, se richiesta, la tumulazione nelle tombe di famiglia, a patto che il sepolcro, sigillato con pietre e calce, non fosse riaperto fino a data da destinarsi.
Su alcuni tumuli in Certosa è invece indicato espressamente che all'interno si trovano le spoglie dei defunti di una data famiglia, "esclusi quelli che nel 1855 morirono di cholera".

Cimitero della Certosa
La lapide sepolcrale sulla tomba a pozzetto di Raffaele Rapetti.
Galleria degli Angeli, pozzetto n. 191.

La Deputazione Straordinaria dovette affrontare anche il problema dei morti di colera indigenti, che non potevano pagare le spese di sepoltura. Don Luigi Galli, vicario della parrocchia di San Silverio di Chiesa Nuova, chiese il rimborso per la sepoltura di alcuni miserabili morti di colera. Nella lista sono indicate le spese per il becchino, quattro portantini e un staio di calce (39,32 litri), per un totale di 2 scudi e 49 baiocchi.
Nella nota in basso a sinistra del 20 luglio, Paolo Pedrieri, presidente della Deputazione Straordinaria, aggiunge uno scudo al becchino, "per gratificazione".
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. senza n. di prot.