A Sua Eccellenza Il Sig. Mse Davia Senatore di Bologna
Eccellenza
Li possidenti, ed abitanti delle Strade Pratello, S. Isaia, e
Borghetto di S Francesco hanno insinuato un mese fa all'Illma
Commissione Provinciale di Sanità un loro collettivo ricorso firmato
da ben 30 interessati, i quali desidererebbero che al cessare
del morbo fosse altrove traslocato il Lazzaretto che resta fra
esse strade, sperando che in sito più discosto dai fabbricati
ed in sito spazioso venisse stabilito anzicchè fra tante case
abitate. Nel ricorso si accennano i motivi del reclamo, i danni
nell'appigionare gli Appartamenti, la vista poco grata de' trasporti
de' vivi, e de' trapassati, e siccome la Comm.e prefata non ha
presa alcuna risoluzione, così pregano la Saggezza di Vra Eccza
a voler provvedere al reclamo. Mi onoro ossequiarla Per li Reclamanti,
ed in nome loro Filipp'Alfonso Fontana altro de' medesimi.
Di Vra Eccza
Li 25 ott. 1855
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a.
1855. tit. XV. prot. 929.
Vera Effigie di S. Maria del Soccorso
che si venera dalla di lei Confraternita a capo il Borgo di
S. Pietro, e per cui l'anno 1527 cessò il contagio...
Ioachinus Pizzoli Academicus Clementinus
Collocazione: G.D.S. AA.VV. Cart. XVIII. 125.
L'immagine
della Beata Vergine del Soccorso di Borgo San Pietro fu tra
le più venerate dai bolognesi durante l'epidemia di
colera del 1855.
Nel corso dell'epidemia di peste del 1527, la statua lignea
della Beata Vergine del Borgo fu portata in processione per
implorare la fine dell'epidemia. Cessato il morbo, si diede
alla Madonna del Borgo il nome di Madonna del Soccorso.
Eccellenza
Ad ottenere dalla Divina Misericordia
la liberazione dal flagello che ci perquote l'Ammne [Amministrazione]
del Santuario di Maria SSma del Soccorso è stata autorizzata,
di esporre alla venerazione de' Fedeli nella Basilica di S. Petronio
la Prodigiosa Immagine di M.a SSma del Soccorso per tutta la veniente
settimana ed alle spese necessarie si dovrà sopperire colle offerte
che si raccoglieranno dai Fedeli. Tanto l'Ammne [Amministrazione]si
tiene in dovere di partecipare all'E.V., e un profondissimo ossequio
si protesta. Di vostra Eccellenza. Bologna 8 Luglio 1855.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a.
1855. tit. XV. prot. 228.
Gli abitanti di alcune vie collocarono
lapidi per ringraziare la Madonna di essere stati risparmiati
dal colera.
Fotografia di Roberto Ravaioli
In via Ca' Selvatica n. 6, si trova invece un'edicola
votiva con alla base una lapide che riporta questa iscrizione:
Gli abitatori di questa via immune nel MDCCCLV dal morbo asiatico
che desolò la città tutta quanta riconoscono da te o divina
la grazia e piamente t'adorano.
Nella fase acuta, il colera si manifesta con violente scariche
di diarrea e vomito (stadio delle grandi evacuazioni).
Per questo motivo si pensava che fosse importante evitare
gli alimenti considerati indigesti, che potevano facilitare
l'insorgere del colera, ed in genere non abbandonarsi ad eccessi
alimentari.
Tra gli alimenti più colpiti dai provvedimenti adottati
dalla Commissione vi furono certamente i meloni e i cocomeri,
di cui a Bologna le classi popolari facevano un largo consumo:
[
] di facile fermentazione [
]. possono grandemente indisporre
il tubo gastro-enterico, ed indurvi una condizione omogenea alla malefica
influenza
(Commissione Provinciale di Sanità, Circolare
n.1336 del 9 agosto 1855).
La vendita fu vietata e i campi di meloni distrutti, con
grave danno dei contadini che furono costretti a rinunciare
ad una importante fonte di reddito, come documenta la lettera
inviata da Tommaso Pancaldi di Bertalia al senatore Davia.
Nella Circolare n. 1336 non si faceva riferimento a rimborsi
per le "melonaie" distrutte, ma si invitavano gli
agricoltori ad accettare di buon grado i sacrifici richiesti
in nome del bene comune.
I cibi grassi invece, considerati adatti all'alimentazione
preventiva anticolerica, ottennero la
dispensa dalle autorità ecclesiastiche per essere
consumati anche nei giorni di astinenza dalle carni (il venerdì
e in altri giorni prescritti), secondo quanto previsto da
uno dei precetti generali della Chiesa cattolica.
A Sua Eccellenza Il Signor Marchese Luigi
Davia Senatore di Bologna
Tommaso Pancaldi di Bertalia, di condizione bracciante, avendo
in quest'anno preso a coltivare una mellonara nella comune di
Beverara, in terreno di ragione del N. U.Sig. Mse Giuseppe Mazzacurati
in luogo detto Battiferro, essendo stato costretto in obbedienza
alla Legge di disfare totalmente il predetto mellonaio, il di
cui ricavato di p.r. avrebbe potuto somministrarle il mantenimento
proprio, della moglie e dei vecchissimi suoi genitori impotenti
al lavoro. Per la superiore disposizione emanata al momento in
cui il ricorrente poteva ritrarre il lucro della fatica sua, e
di quella della propria famiglia, sostenuta per ben quattro mesi,
anima il ricorrente a rivolgersi alla pietà dell'E. V. onde riparare
in parte il danno gravoso sofferto in causa della predetta disposizione,
e nella certezza di vedersi dalla E. V. graziato gli ne anticipa
i più distinti ringraziamenti, che della grazia. [Protocollata
in data 28 agosto 1855].
Risposta, sul verso: Non essendo stata del Cons. la disposizione
ma sibbene della Illustriss. Commissione Ple di Sanità, non è
del comune l'occuparsi della dimanda.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. Prot. 577.
130 anni prima della pubblicazione del celebre romanzo L'amore
ai tempi del colera di Gabriel García Márquez,
l'avvocato Enrico Farnè, scrittore per diletto ("non
so scrivere come Massimo d'Azeglio", ammette), ambienta
una cupa storia d'amore nella Bologna atterrita dall'epidemia
del 1855. Le tragiche vicende di Teresina (orfana, vessata
dalla zia maligna, sedotta da un nobile senza scrupoli e destinata
a morire di colera tra le braccia dell'amato) sono solo il
pretesto per rendere omaggio alla figura del medico omeopatico
Alfonso Monti (Alfonso Monty nel romanzo) che curò
e salvò le figlie di Farnè colpite dal colera.
Enrico Farnè
Teresina Rodi e un medico omeopatico all'epoca del colèra in
Bologna: romanzo storico Firenze, a spese dell'editore, 1856
La prima illustrazione del romanzo, nell'antiporta, mostra il popolo bolognese
in subbuglio per il timore che l'epidemia altro non sia che un avvelenamento
di massa ordito dagli aristocratici, con l'aiuto dei medici.
Le parti più interessanti del romanzo sono quelle dove si descrive
la vita quotidiana al tempo del colera, in una città dove ogni
attività era condizionata dal timore del morbo. Si descrivono le
processioni e le condizioni miserevoli dei quartieri più colpiti,
l'inquietante andirivieni di cataletti che trasportano i malati e le speculazioni
di affaristi senza scrupoli sui rimedi considerati più efficaci.
Il tema dell'avvelenamento ricorre in Italia per tutto
l'Ottocento durante le varie epidemie di colera, e si spiega
con il bisogno di individuare le cause o semplicemente un
capro espiatorio, di un evento del tutto incomprensibile e
terrorizzante.
A tranquillizzare gli animi non contribuiva il fatto che molti
bolognesi benestanti fossero fuggiti dalla città e
che le zone più popolari e degradate fossero le più
colpite dal morbo.
25 giugno: Nel frattempo l'autorità Austriaca ci porge aiuto, inviandoci da Venezia (già da tempo infetta dal morbo) non poca soldatesca [...]. Da questo momento in avanti, sia caso, o sia effetto di contagio, la malattia si spande in maggiori proporzioni.
Per Bottrigari non è da escludere l'ipotesi che un forte contributo allo sviluppo dell'epidemia sia dovuto a contingenti di truppe austriache provenienti dal Veneto, dove il colera imperversava.
5. La grande fuga
Siamo a settembre, quindi cinque mesi dopo lo scoppio dell'epidemia
quando Luigi Frati nella sua lunga ed affettuosa
lettera all'amico Lodovico Bolognini Amorini,
parla di Bologna e della situazione angosciante e tragica che induceva
tanti come lui ad abbandonarla per riparare in campagna e cercare, in
questo modo, di sfuggire all'incombere della malattia. Nel contado,
però, la situazione non era così rosea e apprendiamo sempre
dalla sua penna che anche lì cominciavano a verificarsi casi
prima isolati, poi sempre più diffusi e vicini tanto da costringere
la famiglia Frati a rifare il percorso inverso, cioè a riparare
in città.
Fornisce anche all'amico molte informazioni e aggiornamenti sulle vicende
di comuni amici e di autorità cittadine sostituite proprio a
causa dei molti decessi avvenuti.
Francesco Majani (1798-1865), capostipite di una dinastia di imprenditori
dolciari ancora attiva a Bologna, descrisse nel suo diario (Francesco
Majani, Cose accadute nel tempo di mia vita, a cura di Angelo Varni,
Venezia, Marsilio, 2003) con molta efficacia la paura e la sensazione
di precarietà provata dai bolognesi durante l'epidemia:
Nella primavera di quest'Anno 1855 Sviluppò il Colera che tutti
avevano una gran paura [
] era veramente un brutto vivere così
sempre col convulso, che da un momento all'altro si andava all'altro Mondo.
Lettera di Luigi Frati a Lodovico Amorini
Bolognini, da Bologna, il 4 settembre 1855
Spedita da Bologna il 7 settembre, giunta a Milano l'8 e respinta
a Bologna, dove è giunta l'11, come si rileva dai vari
timbri postali. La lettera non fu letta per la sopraggiunta morte
di colera del destinatario, avvenuta il 6 settembre.
Collocazione: Carteggio Luigi Frati. cart. VIII. n 43.
Lettera di Giovanni Gozzadini al Conte
Bennassù Montanari, da Ronzano il 25 novembre 1855
Collocazione: ms. Gozzadini. 439/2a. n. 102.
[...] Quando cominciò l'epidemia ci rifugiammo in questo romitorio, il quale appunto fu rifabbricato nel secolo XV quale asilo in tempo di peste e restò immune da quella che menò tanta strage nel 1630. La Dio mercé Ronzano conservò in quest'anno funesto la propria fama ed oggi intonammo il cantico di ringraziamento. Nel crescere del morbo stabilimmo una rigorosa clausura e cessammo ogni comunicazione diretta colla città e coi cittadini, quindi passammo alcuni mesi in una perfetta solitudine che non s'increbbe e non ponemmo piede fuori dell' angusti fondo arranziano. [...] LEGGI TUTTO
Giovanni Gozzadini
ci descrive in tono informale quanto la situazione della diffusione
della malattia tra giugno e luglio 1855, fosse drammatica in
città tanto che, oltre alla solita migrazione stagionale
verso i luoghi di villeggiatura, si aggiunse la partenza di
migliaia di persone che cercavano di sfuggire alla malattia
rifugiandosi nel contado. Chi poteva, come nel caso della nobile
famiglia Gozzadini, si trasferiva nella propria villa di campagna.
Dal 16 giugno 1855 infatti i Gozzadini si stabilirono presso
l'eremo di Ronzano, di loro proprietà, vivendo in tanta
solitudine da far dire alla moglie Maria
Teresa Gozzadini in un'altra lettera sempre al cugino Bennassù:
[ ] noi siamo a Ronzano [... ]e viviamo in solitudine così severa che non abbiamo veduto persona fuorché il sacerdote che viene nei giorni festivi a dir la messa. LEGGI TUTTO
Solitudine riempita, è sempre il Gozzadini che ci informa in questa lunga e immaginifica lettera, dalle occupazioni più varie tra cui l'uso di un potente telescopio con il quale spiavano le dimore degli amici vicini, la città un po' più lontana e tutta la pianura dal Mar Adriatico fino addirittura all'arco alpino.
6. Il morbo in versi Motto scherzevole per preservarsi dal cholera
Recipe un grano
d'indiferenza
un po' d'estratto di impazienza
Aborrimento d'ogni questione
Da zelo infausto dall'ambizione
cerca due oncie di società
et quantum sufficit d'illarità
Ma sempre schietta
senza artifizio
due dramme aggiungivi dell'esercizio
due buoni grani di derisione
scevri di cure e d'ogni opinione
mescola il tutto fallo bollire
e in questo modo ten dei servire
Bevine un nappo di buon mattino
questo dicendo motto carino
fiat voluntas tua
La paura sul palco
Se non si potevano vietare le processioni per non turbare
gli animi, si limitarono comunque le feste (come la corsa
del Pallio) e gli spettacoli, allo scopo di evitare assembramenti
ritenuti pericolosi per il rischio di contagio.
"Teatri arti e letteratura", a. XXXIII,
t. 63, n. 1599, 11 agosto 1855, p.198
In questa pagina compare il misterioso timbro che fu utilizzato esclusivamente in luoghi colpiti dal colera, tra il 1854 e il 1855.
Le riviste teatrali riportavano spesso notizie di spettacoli
annullati, ma anche di attori deceduti a causa del morbo,
come in questa pagina della rivista "Teatri arti e letteratura",
scelta anche perché compare in alto a sinistra e nella
pagina successiva, in alto a destra, un misterioso timbro
che fu utilizzato esclusivamente in luoghi colpiti dal colera,
tra il 1854 e il 1855.
Un dubbio postale: il melograno di Bologna
Tipologia del bollo
Bollo ovale in orizzontale contenente un'immagine fitomorfa:
il frutto del melograno all'inizio della maturazione.
Nell'ambito della Storia Postale viene definito "bollo
muto" in quanto privo di indicazioni di luogo.
Uso del bollo
È presente su numerosi documenti amministrativi, come
pure su lettere e fascicoli di periodici inviati per posta.
Periodo d'uso
Dalla fine del 1854 all'ottobre 1855, durante la seconda grande
epidemia di colera in Italia.
Interpretazioni
In passato: Bollo di archiviazione di documenti e lettere
dirette ad autorità. Più di recente: Bollo di
avvenuta disinfezione.
Tipologia degli oggetti bollati
Su numerosi documenti amministrativi e su lettere nascenti
e dirette in città, oppure provenienti da altre città
dello Stato Pontificio. Pochi documenti presentano, oltre
il bollo, tagli di disinfezione mentre la maggioranza di questi
ne è priva in quanto, pervenendo alla Sanità
già aperti, non necessitavano dell'azione meccanica
dei tagli per essere sottoposti a fumigazione con vapori di
cloro.
È nota la presenza del bollo e dei tagli su lettere
circolanti nell'ambito della città o suo territorio
limitrofo e, ancora più evidente, su lettere provenienti
da altre città pontificie.
Considerazioni
Per le ragioni sopra esposte, viene inserito di diritto nella
grande tipologia dei bolli comprovanti l'avvenuta disinfezione,
nonostante rimanga misteriosa la sua origine.
Scheda a cura di Alberto Cavalieri
Nel 1855 nel cimitero comunale della Certosa furono sepolte
più di 7.000 persone. Dunque la Deputazione Straordinaria
di Sanità dovette affrontare una vera e propria emergenza
legata alla gestione dei cadaveri, più che raddoppiati
rispetto ai decenni precedenti. In realtà l'emergenza
fu ancora maggiore se si considera che fu concentrata in un
periodo relativamente breve, dato che nel solo mese di luglio
i morti furono 2.371.
Il problema non era soltanto di garantire una degna sepoltura
per tutti, ma anche di limitare l'impatto psicologico che
la morte di tante persone poteva avere sullo stato d'animo
dei bolognesi. Si decise quindi di far transitare i cadaveri
dagli ospedali direttamente alla camera mortuaria di S. Rocco,
senza farli passare dalle rispettive parrocchie, e di non
fare suonare le campane per i defunti. Non è difficile
immaginare come il suono continuato delle campane a morte
potesse aumentare l'angoscia ed il terrore dei vivi. Già
prima dell'epidemia il trasporto dei cadaveri alla camera
mortuaria e da S. Rocco alla Certosa non era mai effettuato
di giorno: la morte andava occultata, tanto più in
tempo di colera, e così i carri funebri (i cataletti)
si distinguevano dai mezzi che trasportavano i malati nei
lazzaretti soltanto per la presenza di una piccola croce.
Particolari disposizioni avevano l'obiettivo di tranquillizzare
i bolognesi che, più della morte, temevano di essere
sepolti vivi. Anche in questo caso, già prima dell'epidemia,
i cadaveri venivano tenuti in osservazione per diverse ore,
per poter certificare con sicurezza l'avvenuto decesso. Le
caratteristiche del colera all'ultimo stadio (stadio del collasso:
temperatura del corpo bassissima e pulsazioni impercettibili),
contribuivano a alimentare la paura di finire anzitempo nelle
camere mortuarie.
Nonostante l'alto numero dei decessi, non si fece ricorso
a fosse comuni. Ogni corpo fu sepolto in una fossa unica,
cioè individuale, all'interno dei campi già
esistenti per chi moriva negli ospedali.
Non tutti i morti per colera confluivano alla Certosa, dato
che erano ancora in funzione diversi cimiteri nelle frazioni
fuori dalle mura (gli appodiati), come a San Ruffillo, dove
la cronaca di Enrico Bottrigari segnala con orrore cadaveri
insepolti e non cosparsi di calce disinfettante. Inoltre,
da parte di molte famiglie benestanti vi furono richieste
di poter seppellire i propri cari nelle tombe gentilizie.
Così ad esempio lo stesso Bottrigari, che fece seppellire
la madre, Maria Tadolini, morta di colera il 16 agosto, nella
tomba privata posta alla Certosa.
Le sepolture
La statistica dei sepolti al Cimitero della Certosa dal 1801
(anno di apertura) al 1856 mostra l'impennata di sepolture
(7071) avvenuta nel 1855: l'anno prima erano stati sepolti
3333 cadaveri, l'anno dopo saranno 3327, meno della metà.
La mortalità nel 1855 fu del 9%, contro il 4% che si
registrava normalmente, ma va anche considerato che Bologna
nei mesi dell'epidemia contava diverse migliaia di abitanti
in meno, fuggiti nelle campagne.
La Certosa era suddivisa in numerosi campi (cfr. la colonna
di sinistra, con le lettere dell'alfabeto corrispondenti a
ventidue recinti, riservati ad altrettante categorie di defunti).
I morti di colera non furono sepolti in zone appartate, ma
nei campi riservati a chi moriva negli ospedali: "F"
per gli uomini, "G" per le donne. Da notare che
i dipendenti pubblici, dal 1822 al 1867 venivano sepolti in
un campo a loro riservato ("N").
I corpi venivano sepolti a cinque piedi di profondità
(1,90 m, calcolato con apposita canna in dotazione agli scavatori),
su uno strato di sabbia, e poi cosparsi con calce, prima di
essere coperti da un altro strato di sabbia e poi di terra.
La fossa per i morti di colera era più profonda di
un piede (0.38 m) rispetto a quelle normali. Le inumazioni
avvenivano, in genere, ponendo direttamente il corpo nella
terra: le casse erano troppo costose e in pochi potevano permettersele.
Per il trasporto alla camera mortuaria e ai cimiteri, il cadavere
veniva invece sempre collocato in una cassa di legno.
Sepolti vivi: "Ahi, cadaveri son pria d'esser morte!"
C'era solo una cosa che spaventava più della morte:
essere sepolti vivi. Filippo Pacini descrive chiaramente l'ultima
stadio del colera, la morte apparente, quando prima del collasso
finale il malato, algido e con le funzioni vitali ridotte
al minimo, può essere creduto morto. Ad aumentare questo
timore contribuivano in alcuni casi dei movimenti postmortali,
con contrazione degli arti in strane posizioni, che facevano
pensare a reazioni scomposte da parte di un sepolto vivo,
nel tentativo di uscire dalla cassa.
Scrive Pacini, a p. 16:
In generale poi i cadaveri dei colerosi non dovranno essere
trattati come veri cadaveri, se non che quando abbiano principiato
a dare qualche indizio non equivoco di putrefazione: unico
segno certo della morte.
Per questo motivo, e contrariamente ad ogni logica
igienico-sanitaria, i cadaveri venivano tenuti in osservazione
24 ore (in piena estate!), con la cassa scoperta, prima di
essere portati alla sepoltura. Da qui le proteste dei portantini
che trasportavano i corpi nella nuova camera mortuaria, costruita
in fretta e furia in luglio nella chiesa di San Rocco, accanto
alla vecchia: la mancanza di finestre rendeva l'aria irrespirabile
ed il selciato di sassi, senza scoli, non faceva defluire
gli umori o liquidi che partono dai cadaveri (cfr. ASCBo,
Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit.
XV. prot. 280).
Repubblica Cisalpina. La Commissione di Sanità
nel Dipartimento del Reno
Regolamenti discipline di sanità pel Cimitero
Comunale di Bologna [1801?] (Data di emanazione: Bologna, 22 germile anno 9. Repub. corrisponde al 12 aprile 1801). Segn: [1]8.
Il primo regolamento del cimitero della Certosa, emanato
il 22 germile, anno 9 della Repubblica (12 aprile 1801),
prevedeva già precise norme per evitare di seppellire
persone in vita.
Articolo sesto. [...] tutti quelli, che cessano di esistere in
seguito di non equivoca malattia, debbono essere sepolti dopo
ore trenta, e non meno dalla loro morte (p. 9).
Lettera inviata da Camillo Azzaroni, arciprete
e presidente della Commissione di Sanità dell'appodiato
di S. Egidio a Paolo Predieri, presidente della Deputazione
Comunale Straordinaria (senza data).
La lettera, dai toni disperati, segnala i problemi legati
alle sepolture effettuate nei cimiteri delle varie frazioni
poste intorno alla città, spesso troppo vicini
alle abitazioni. Solo a partire dal 1 gennaio 1868 tutti
i cadaveri del Comune di Bologna verranno sepolti alla
Certosa, sopprimendo i cimiteri parrocchiali degli appodiati.
Anche nelle camere mortuarie delle parrocchie i corpi
venivano lasciati per 24 ore in osservazione.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. prot. 1591.
Illmo Sig. Conservatore
Ieri ho avuto tre morti, ed oggi n'avrò altri due, quindi
cresce la necessità di portarne qualcheduno al Ricovero
si perché il cimitero non è capace, si perché,
ad onta della disciplina, moveremo il quel terreno fra le case
un pericolo oltre i reclami che ricevo. Ella mi diede la speranza
che avrebbe appagati gli ordini ed oggi insisto colla più
viva preghiera perché la speranza sia in giornata realtà.
In 16 giorni i miei casi sono 45, dei quali 25 morti.
Da molto tempo i Fanti proveggono i suffumigi dal nostro speziale
si perché comodo e discreto, e si perché si sapeva
la massima di facoltizzarlo a somministrarli. E' bene farlo onde
non si ricusi.
Aspetto la cassa mortuaria, e il cocchietto per S. Donnino, come
alla notazione fece.
Sono contornato da miserie e da miserabili, e non solo non ho
più un soldo per la beneficenza, ma vado creditore di qualche
scudo. Per carità un sussidio che mi calmi il crepacuore
di veder piangere e pregare.
Mi creda carissimo
Deputazione Comunale di Sanità
Modulo di denuncia di morte. Modulo di accompagnamento
di cadavere
Collocazione: 17. Storia civile e politica. O. 1.
La Deputazione Straordinaria preparò e distribuì
negli Uffizi di Soccorso diversi moduli da compilarsi
nelle varie fasi dell'azione contro l'epidemia. Compilare
correttamente i moduli, annotare con diligenza nei registri
i nuovi casi di colera, seguire con precisione le direttive
della Deputazione non significava solo fare burocraticamente
il proprio dovere, ma era indispensabile per il buon funzionamento
della macchina dei soccorsi e per non perderne il controllo.
Nella nota manoscritta, Paolo Predieri, presidente
della Deputazione Straordinaria, trasmette a Francesco
Maria Neri, membro della stessa Deputazione, la richiesta
di stampare mille moduli di denuncia di morte per gli
Uffizi di Soccorso: la data è il 19 luglio, l'epidemia
aveva raggiunto l'apice.
I permessi di seppellimento, compilati quando il cadavere
entrava nel cimitero, forniscono importanti informazioni
sul defunto, dalla professione alla causa di morte.
In evidenza è la scheda del dott. Pietro Golfieri
(n. 5845), giovane medico di 28 anni, morto di colera il 17 luglio
mentre prestava servizio al lazzaretto del Ricovero.
Venne sepolto nel campo "F", riservato agli
uomini che morivano negli ospedali, ma dove furono sepolti
anche gli uomini morti di colera nelle proprie abitazioni.
Cimitero della Certosa (parte esterna).
L'ossario dei morti di colera
Fotografia non datata, prob. fine del XIX sec.
L'ossario è l'edificio circolare posto subito
oltre le mura della Certosa, nell'angolo ad est, vicino
al canale di Reno.
Nei primi decenni del Novecento l'area verrà inglobata
dall'espansione del cimitero. Questa fotografia, più
volte pubblicata, mostra l'edificio dove furono collocate
le ossa delle vittime del colera.
Al momento non si hanno notizie di quando l'ossario fu
costruito, né di quando fu abbattuto.
L'edificio, di forma circolare, compare in una pianta
della Certosa del 1836, mentre non sembra essere presente
in una mappa del 1829, e dunque potrebbe essere stato
costruito tra queste due date. Risulta ancora presente
in una pianta del 1911.
Normalmente i corpi venivano riesumati dalle tombe nel
terreno ogni 10 anni, per cui si può presumere
che l'ossario abbia ospitato le ossa dei morti di colera
dopo il 1865.
Lettera di Carlo Raguzzi e della moglie, Carlotta Rapetti,
al Senatore Luigi Davia per chiedere la sepoltura di Raffaele
Rapetti nella tomba della famiglia Raguzzi e non nel campo degli
ospedali.
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo.
a. 1855. tit. XV. prot. 183.
Il professore Raffaele Rapetti (1813-1855), avvocato,
giudice e professore di diritto criminale, è
citato tra le persone celebri morte di colera nella
lettera che Luigi Frati inviò a Lodovico Amorini
Bolognini il 4 settembre 1855. Non fu sepolto nel campo
ospedali, ma neanche nella tomba del cognato, come era
stato richiesto dai familiari, bensì in un tumulo
a parte. I ceti abbienti non gradivano che i propri
cari morti di colera fossero sepolti in una semplice
fossa del campo ospedali, per cui fu concessa, se richiesta,
la tumulazione nelle tombe di famiglia, a patto che
il sepolcro, sigillato con pietre e calce, non fosse
riaperto fino a data da destinarsi.
Su alcuni tumuli in Certosa è invece indicato
espressamente che all'interno si trovano le spoglie
dei defunti di una data famiglia, "esclusi quelli
che nel 1855 morirono di cholera".
La Deputazione Straordinaria dovette affrontare
anche il problema dei morti di colera indigenti, che non potevano
pagare le spese di sepoltura. Don Luigi Galli, vicario della parrocchia
di San Silverio di Chiesa Nuova, chiese il rimborso per la
sepoltura di alcuni miserabili morti di colera. Nella lista
sono indicate le spese per il becchino, quattro portantini e un
staio di calce (39,32 litri), per un totale di 2 scudi e 49 baiocchi.
Nella nota in basso a sinistra del 20 luglio, Paolo Pedrieri,
presidente della Deputazione Straordinaria, aggiunge uno
scudo al becchino, "per gratificazione".
ASCBo. Segreteria generale. Carteggio amministrativo. a. 1855. tit. XV. senza n. di prot.