1. I mestieri delle acque
2. Acque a Bologna
1. I MESTIERI DELLE ACQUE
L'epopea delle lavandaie
Quello della lavandaia era un mestiere tipicamente femminile, inteso come
una sorta di prolungamento dei lavori domestici; non era regolato né
riconosciuto ufficialmente e per esercitarlo bastava semplicemente munirsi
di una tavola o un'asse di legno su cui sbattere la biancheria e di cenere
o sapone fatto di grasso animale per lavare. Il lavoro, anche se occupava
buona parte della giornata e andava avanti tutto l'anno, estate e inverno,
era scarsamente remunerato ed era quindi esercitato dalle classi più
umili. A Bologna erano presenti tre tipologie di lavatoio: quello "a trincea"
consisteva in una barriera in muratura ricavata lungo il canale dietro
la quale si poteva stare a lavare all'asciutto; quello "a gradinata" era
formato da gradini sommersi nell'acqua, dove d'inverno si collocavano
delle botti di legno per stare all'asciutto; quello "a ponte levatoio",
infine, era formato da un semplice tavolato di legno posto a livello dell'acqua
sul quale si doveva lavare in ginocchio, ed era quindi il più faticoso.
Considerando che l'acqua dei canali lungo i quali si trovavano i lavatoi
era generalmente inquinata, è facile immaginare le precarie condizioni
igieniche nelle quali si svolgeva il lavoro di tante donne bolognesi.
Con la forza dell'acqua: mulini, pile, gualchiere
A partire dai tre corsi d'acqua che entravano nel centro della città
(torrente Aposa, canale di Reno e canale di Savena) si andò a formare,
nel corso dei secoli, un complesso sistema di distribuzione delle acque
da trasformare poi in energia idraulica. Fin dal Medioevo a Bologna si
iniziò infatti a sfruttare l'acqua come forza motrice di un gran
numero di impianti per le più diverse attività artigianali
e industriali. Questa complessa rete micro-idraulica, costituita da canalette
e chiaviche, alimentava una molteplicità di forme di sfruttamento
dell'energia idraulica a fini industriali: cartiere, impianti di molitura
del grano, ferriere e, soprattutto, i filatoi, ovvero i mulini da seta,
che dal Medioevo fino alla fine del Settecento hanno reso Bologna una
grande realtà industriale a livello europeo. Gli impianti erano
dislocati lungo tutti i canali cittadini, ma soprattutto lungo la sponda
sinistra del canale di Reno e nella sua diramazione del Cavaticcio, dove
la pendenza del terreno consentiva un buon flusso d'acqua per alimentare
le macchine. Macchine che erano all'avanguardia: il mulino da seta bolognese
è considerata la macchina a più alto sviluppo tecnologico
tra quelle utilizzate e prodotte in età preindustriale. I filatoi
davano lavoro a centinaia di operai e garzoni, e ancora di più
erano quelli che lavoravano nell'indotto della lavorazione dei prodotti
filati. Allo stesso modo è facile immaginare le precarie condizioni
igieniche di lavoro nei filatoi alimentati dalle acque inquinate dei canali.
La crisi
Sebbene fossero all'avanguardia soprattutto nella lavorazione della seta,
alle aziende bolognesi, tra la fine Settecento e l'inizio dell'Ottocento,
mancò la capacità di effettuare il decisivo passaggio alla
prima fase della rivoluzione industriale. La lavorazione della lana e
della seta, che fino ad allora si era distinta per il suo livello quasi
industriale, per mancanza di investimenti scivolò lentamente verso
una produzione quasi del tutto domestica, i cui prodotti superavano raramente
i confini della provincia. La chiusura di tanti impianti di lavorazione
provocò non solo disoccupazione di un gran numero di addetti, provenienti
per la maggior parte dalle classi popolari, ma anche l'abbandono della
manutenzione e della pulizia periodica di molti tratti di canali cittadini
che, rimasti privi di cura, si andarono inevitabilmente a trasformare
in corsi d'acqua maleodoranti e inquinati.
Pietro Negri, Manuale pratico per la stima
delle case degli opifici idraulici, Bologna, presso Marsigli
e Rocchi, 1852
Collocazione: 2. C. VI. 83
Descrizione di un filatoio a tre ponti fornito dell'occorrente.
Tavola VI. Figura XXI: Questa figura rappresenta l'insieme del filatoio
col suo relativo meccanismo, che serve a mettere in movimento tutte le
singole parti che lo compongono, e particolarmente ciò che costituisce
il gran castello stabile, mentre dalla fig. 22 scorgesi l'insieme del
gran castello mobile, e così uniti formano tutto ciò che
chiamasi filatoio.
Tavola VI. Figura XXII: Gran castello mobile di un filatoio a tre ponti,
ed inoltre un piano di tavelle visto in facciata.
Il sistema fognario
Fino al 1865 in città mancò un vero e proprio sistema fognario:
vi erano delle canalette di scolo che correvano a cielo aperto e anche
delle condutture interrate, ma essendo state costruite in epoche e con
materiali diversi, spesso non impermeabili, disperdevano ciò che
trasportavano nel terreno. Anche i pozzi neri e le latrine delle abitazioni
private rilasciavano i liquami nel terreno che andavano ad inquinare la
falda freatica cui attingevano i pozzi domestici. Inoltre, tutti gli scarichi
andavano ad immettersi, senza alcun controllo, nei canali dove riversavano
i loro rifiuti anche le numerose attività manifatturiere e industriali
che sfruttavano la forza motrice dei canali. Tutta l'acqua sfruttata ad
uso alimentare, sia quella dei canali sia quella dei pozzi, era quindi
inevitabilmente inquinata e poiché l'immondizia veniva abbandonata
lungo le strade e gli addetti municipali alle pulizie utilizzavano la
stessa acqua inquinata presa dai canali, la città appariva malsana
e maleodorante, e sussisteva in permanenza pericolo per la salute pubblica.
I guazzatoi
In ognuno dei quattro quartieri cittadini all'interno delle mura si trovava
un "guazzatoio", ovvero un accesso scoperto ad uno dei canali, nel quale
si potevano portare ad abbeverare o a lavare gli animali. Si può
facilmente intuire come questi luoghi non fossero il massimo della pulizia.
L'acquedotto romano
Nel corso degli anni Sessanta dell'Ottocento tornò casualmente
alla luce l'antico acquedotto romano, di cui da secoli si conosceva l'esistenza
ma non la collocazione. Dopo lavori di ripristino da parte dell'amministrazione
comunale, fu rimesso in funzione e tornò ad essere utilizzato a
partire dal 1881.
Le fontane
Per secoli in città funzionarono solo quattro fontane: una si trovava
vicino a Porta San Mamolo, una lungo le mura nei pressi di Porta Santo
Stefano e le altre due erano le fontane di piazza, quella del Nettuno,
risalente al 1564, e quella vicina della Gabella Vecchia, inaugurata nel
1565. L'acqua per entrambe queste fontane veniva dalla Fonte Remonda e
da quella di Valverde, sotto San Michele in Bosco e giungeva in piazza
sfruttando parte dell'antico acquedotto romano. Le due fontane di piazza
erano entrambe protette da delle cancellate in ferro per evitare che i
venditori di piazza vi pulissero o facessero bere gli animali. L'acqua
poteva essere presa comunque da delle fontanelle. Le cancellate furono
tolte solo nel corso degli anni Ottanta dell'Ottocento, dopo che era iniziata
la distribuzione all'interno della città dell'acqua proveniente
dall'antico acquedotto romano.
I pozzi
La quasi totalità dell'acqua ad uso potabile per secoli fu ricavata
dai pozzi In ogni cortile, in ogni cantina di Bologna era stato ricavato
un pozzo dal quale si attingeva acqua direttamente dalla falda freatica
sotterranea. Alla metà dell'Ottocento ne erano presenti quasi 14.500.
Tutti questi pozzi fornivano senza scampo acqua non potabile. Con la riapertura
nel 1881 dell'acquedotto furono finalmente costruite diverse fontanelle
da cui attingere acqua, al posto dei pozzi. Nella successiva epidemia
di colera degli anni Ottanta si constatò come l'incidenza della
malattia diminuisse in quelle zone in cui già era stato realizzato
un collegamento idrico con l'acquedotto.
Gaetano Sgarzi, Specimen chimycae analysis
in aquis potabilibus civitatis Bononiae (Academiae traditum
die 8 Aprilis 1840), Bononiae, ex Typographaeo Emygdii ab Ulmo,
1843
Collocazione: 25. G. I. 1 op. 17.
All'inizio degli anni Quaranta dell'Ottocento, il professor Gaetano
Sgarzi, docente universitario di chimica, compì un'analisi
completa di tutte le acque utilizzate nel centro di Bologna a
scopo alimentare. Analizzò le acque dell'Aposa e dei due
canali di Savena e Reno, quella delle fontane pubbliche e quelle
di un campione rappresentativo delle migliaia di pozzi che si
trovavano nel centro cittadino.