1855 Cholera morbus

Le acque: ricchezza e pericolo


1. I mestieri delle acque
2. Acque a Bologna


1. I MESTIERI DELLE ACQUE

L'epopea delle lavandaie
Quello della lavandaia era un mestiere tipicamente femminile, inteso come una sorta di prolungamento dei lavori domestici; non era regolato né riconosciuto ufficialmente e per esercitarlo bastava semplicemente munirsi di una tavola o un'asse di legno su cui sbattere la biancheria e di cenere o sapone fatto di grasso animale per lavare. Il lavoro, anche se occupava buona parte della giornata e andava avanti tutto l'anno, estate e inverno, era scarsamente remunerato ed era quindi esercitato dalle classi più umili. A Bologna erano presenti tre tipologie di lavatoio: quello "a trincea" consisteva in una barriera in muratura ricavata lungo il canale dietro la quale si poteva stare a lavare all'asciutto; quello "a gradinata" era formato da gradini sommersi nell'acqua, dove d'inverno si collocavano delle botti di legno per stare all'asciutto; quello "a ponte levatoio", infine, era formato da un semplice tavolato di legno posto a livello dell'acqua sul quale si doveva lavare in ginocchio, ed era quindi il più faticoso. Considerando che l'acqua dei canali lungo i quali si trovavano i lavatoi era generalmente inquinata, è facile immaginare le precarie condizioni igieniche nelle quali si svolgeva il lavoro di tante donne bolognesi.

Lavandaie presso la chiesa della Misericordia a Porta Castiglione.

Lavandaie presso il Porto Naviglio.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nel tratto seguente l'opificio della Grada.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nei pressi della chiesa della Visitazione.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nei pressi della chiesa della Visitazione.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nei pressi della chiesa della Visitazione.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nei pressi della chiesa della Visitazione.

Lavatoi lungo il canale di Reno, nei pressi della chiesa della Visitazione.

Con la forza dell'acqua: mulini, pile, gualchiere
A partire dai tre corsi d'acqua che entravano nel centro della città (torrente Aposa, canale di Reno e canale di Savena) si andò a formare, nel corso dei secoli, un complesso sistema di distribuzione delle acque da trasformare poi in energia idraulica. Fin dal Medioevo a Bologna si iniziò infatti a sfruttare l'acqua come forza motrice di un gran numero di impianti per le più diverse attività artigianali e industriali. Questa complessa rete micro-idraulica, costituita da canalette e chiaviche, alimentava una molteplicità di forme di sfruttamento dell'energia idraulica a fini industriali: cartiere, impianti di molitura del grano, ferriere e, soprattutto, i filatoi, ovvero i mulini da seta, che dal Medioevo fino alla fine del Settecento hanno reso Bologna una grande realtà industriale a livello europeo. Gli impianti erano dislocati lungo tutti i canali cittadini, ma soprattutto lungo la sponda sinistra del canale di Reno e nella sua diramazione del Cavaticcio, dove la pendenza del terreno consentiva un buon flusso d'acqua per alimentare le macchine. Macchine che erano all'avanguardia: il mulino da seta bolognese è considerata la macchina a più alto sviluppo tecnologico tra quelle utilizzate e prodotte in età preindustriale. I filatoi davano lavoro a centinaia di operai e garzoni, e ancora di più erano quelli che lavoravano nell'indotto della lavorazione dei prodotti filati. Allo stesso modo è facile immaginare le precarie condizioni igieniche di lavoro nei filatoi alimentati dalle acque inquinate dei canali.

Scarichi delle fabbriche si gettano nel canale Cavaticcio.

Incisione del canale Cavaticcio di Antonio Basoli.

La zona del Porto Naviglio, a ridosso delle mura, in un momento di secca.

La crisi
Sebbene fossero all'avanguardia soprattutto nella lavorazione della seta, alle aziende bolognesi, tra la fine Settecento e l'inizio dell'Ottocento, mancò la capacità di effettuare il decisivo passaggio alla prima fase della rivoluzione industriale. La lavorazione della lana e della seta, che fino ad allora si era distinta per il suo livello quasi industriale, per mancanza di investimenti scivolò lentamente verso una produzione quasi del tutto domestica, i cui prodotti superavano raramente i confini della provincia. La chiusura di tanti impianti di lavorazione provocò non solo disoccupazione di un gran numero di addetti, provenienti per la maggior parte dalle classi popolari, ma anche l'abbandono della manutenzione e della pulizia periodica di molti tratti di canali cittadini che, rimasti privi di cura, si andarono inevitabilmente a trasformare in corsi d'acqua maleodoranti e inquinati.

Pietro Negri, Manuale pratico per la stima delle case degli opifici idraulici, Bologna, presso Marsigli e Rocchi, 1852
Collocazione: 2. C. VI. 83
Descrizione di un filatoio a tre ponti fornito dell'occorrente.
Tavola VI. Figura XXI: Questa figura rappresenta l'insieme del filatoio col suo relativo meccanismo, che serve a mettere in movimento tutte le singole parti che lo compongono, e particolarmente ciò che costituisce il gran castello stabile, mentre dalla fig. 22 scorgesi l'insieme del gran castello mobile, e così uniti formano tutto ciò che chiamasi filatoio.
Tavola VI. Figura XXII: Gran castello mobile di un filatoio a tre ponti, ed inoltre un piano di tavelle visto in facciata.

2. ACQUE A BOLOGNA

Il sistema dei canali
Il torrente Aposa è stato l'unico corso d'acqua che ha percorso l'area urbana di Bologna dal momento della sua fondazione fino al XII secolo, quando sono stati realizzati due canali artificiali, il Canale di Reno a Occidente e quello di Savena a Oriente, che convogliavano verso la città le acque da una parte del fiume Reno e dall'altra del torrente Savena. Da questi due canali principali sono poi stati ricavati, all'interno del centro abitato, numerose altre deviazioni e canali secondari sui quali sono state impiantate numerose attività artigianali e industriali che utilizzavano la forza motrice dell'acqua per i più diversi tipi di lavorazioni. Per secoli, cartiere, mulini, gualchiere per la lavorazione della lana e della seta, hanno caratterizzato il centro cittadino, in particolare la zona settentrionale, lungo il corso del canale Cavaticcio e del canale delle Moline. Dedicato in particolare modo allo sfruttamento industriale era il canale Cavaticcio che sfociava nel porto Naviglio, importante mezzo di commerci per tutta l'età medievale e moderna. Con la scoperta e il passaggio all'utilizzo di nuove fonti energetiche, tra Settecento e Ottocento, l'utilizzo dell'acqua divenne sempre più secondario, gli impianti industriali lungo i canali furono abbandonati e di conseguenza anche la loro manutenzione divenne sempre più precaria, tanto che cominciarono a trasformarsi in semplici collettori degli scarichi urbani. Per questo motivo e per la scarsa portata che li caratterizzava, i primi ad essere coperti, già a partire dall'Ottocento, furono il canale di Savena e il torrente Aposa. Il canale di Reno, nonostante anch'esso fosse collettore degli scarichi fognari, continuò ad alimentare comunque i lavatoi, i bagni pubblici e molti venditori alimentari ne utilizzavano le acque.

Il canale di Reno presso la chiesa
di Santa Maria della Visitazione

Gli scarichi delle manifatture nel canale Cavaticcio.

Il Porto Naviglio.

Il canale nel tratto antistante l'Ospedale Maggiore.

Il canale delle Moline.

Il canale di Reno presso l'opificio della Grada.

Un guazzatoio lungo il canale delle Moline.

Il canale di Reno subito dopo palazzo Gnudi.

Il sistema fognario
Fino al 1865 in città mancò un vero e proprio sistema fognario: vi erano delle canalette di scolo che correvano a cielo aperto e anche delle condutture interrate, ma essendo state costruite in epoche e con materiali diversi, spesso non impermeabili, disperdevano ciò che trasportavano nel terreno. Anche i pozzi neri e le latrine delle abitazioni private rilasciavano i liquami nel terreno che andavano ad inquinare la falda freatica cui attingevano i pozzi domestici. Inoltre, tutti gli scarichi andavano ad immettersi, senza alcun controllo, nei canali dove riversavano i loro rifiuti anche le numerose attività manifatturiere e industriali che sfruttavano la forza motrice dei canali. Tutta l'acqua sfruttata ad uso alimentare, sia quella dei canali sia quella dei pozzi, era quindi inevitabilmente inquinata e poiché l'immondizia veniva abbandonata lungo le strade e gli addetti municipali alle pulizie utilizzavano la stessa acqua inquinata presa dai canali, la città appariva malsana e maleodorante, e sussisteva in permanenza pericolo per la salute pubblica.

I guazzatoi
In ognuno dei quattro quartieri cittadini all'interno delle mura si trovava un "guazzatoio", ovvero un accesso scoperto ad uno dei canali, nel quale si potevano portare ad abbeverare o a lavare gli animali. Si può facilmente intuire come questi luoghi non fossero il massimo della pulizia.

L'acquedotto romano
Nel corso degli anni Sessanta dell'Ottocento tornò casualmente alla luce l'antico acquedotto romano, di cui da secoli si conosceva l'esistenza ma non la collocazione. Dopo lavori di ripristino da parte dell'amministrazione comunale, fu rimesso in funzione e tornò ad essere utilizzato a partire dal 1881.

Le fontane
Per secoli in città funzionarono solo quattro fontane: una si trovava vicino a Porta San Mamolo, una lungo le mura nei pressi di Porta Santo Stefano e le altre due erano le fontane di piazza, quella del Nettuno, risalente al 1564, e quella vicina della Gabella Vecchia, inaugurata nel 1565. L'acqua per entrambe queste fontane veniva dalla Fonte Remonda e da quella di Valverde, sotto San Michele in Bosco e giungeva in piazza sfruttando parte dell'antico acquedotto romano. Le due fontane di piazza erano entrambe protette da delle cancellate in ferro per evitare che i venditori di piazza vi pulissero o facessero bere gli animali. L'acqua poteva essere presa comunque da delle fontanelle. Le cancellate furono tolte solo nel corso degli anni Ottanta dell'Ottocento, dopo che era iniziata la distribuzione all'interno della città dell'acqua proveniente dall'antico acquedotto romano.

Cortile di una casa popolare del centro.

Uno dei chiostri retrostanti la parrocchia dei Santi Gregorio e Siro, in via Montegrappa.

Cortile dell'ex monastero di San Bernardo
delle Acque, fuori Porta San Mamolo.

Il chiostro ottagonale di San Michele in Bosco

Il chiostro detto "dei Morti" nel complesso di Santo Stefano.

Fontana del Nettuno.

Fontana della gabella vecchia

I pozzi
La quasi totalità dell'acqua ad uso potabile per secoli fu ricavata dai pozzi In ogni cortile, in ogni cantina di Bologna era stato ricavato un pozzo dal quale si attingeva acqua direttamente dalla falda freatica sotterranea. Alla metà dell'Ottocento ne erano presenti quasi 14.500. Tutti questi pozzi fornivano senza scampo acqua non potabile. Con la riapertura nel 1881 dell'acquedotto furono finalmente costruite diverse fontanelle da cui attingere acqua, al posto dei pozzi. Nella successiva epidemia di colera degli anni Ottanta si constatò come l'incidenza della malattia diminuisse in quelle zone in cui già era stato realizzato un collegamento idrico con l'acquedotto.

Gaetano Sgarzi, Specimen chimycae analysis in aquis potabilibus civitatis Bononiae (Academiae traditum die 8 Aprilis 1840), Bononiae, ex Typographaeo Emygdii ab Ulmo, 1843
Collocazione: 25. G. I. 1 op. 17.
All'inizio degli anni Quaranta dell'Ottocento, il professor Gaetano Sgarzi, docente universitario di chimica, compì un'analisi completa di tutte le acque utilizzate nel centro di Bologna a scopo alimentare. Analizzò le acque dell'Aposa e dei due canali di Savena e Reno, quella delle fontane pubbliche e quelle di un campione rappresentativo delle migliaia di pozzi che si trovavano nel centro cittadino.

L'Acqua dei Fiumi che scorrono per la campagna, all'aperto, e sopra un letto di buona sabbia e ghiaja generalmente è buona e la meglio adatta agli usi della Società; quella invece de' Fiumi che attraversano luoghi abitati, perché viene a contatto d'Opificj, perché riceve scoli ed altro, il più delle volte si fa cattiva, alterata, e quasi affatto inutile (Specimen, p. 12).

Il risultato delle sue ricerche, pubblicato dapprima in latino in un volume delle Memorie dell'Istituto delle scienze e poi in italiano, fu a dir poco preoccupante:

Dunque a lode del vero fra tutte le Acque dei Pozzi di Bologna che sono state per me analizzate queste poche sole riunite nell'ultima Sezione posso dichiarare di buona qualità (Specimen, p. 35).

Tutte le altre acque erano in maniera più o meno marcata inevitabilmente inquinate e quindi non potabili. In questa carta, tratta dalla ricerca di Sgarzi, sono indicate le varie zone del centro cittadino a seconda del grado di inquinamento delle acque dei pozzi presenti in quel settore, dalle più inquinate di colore giallo a quelle meno inquinate, di colore viola.

Eccovi o Signori alla Tav. I litografica che vi presento l'apparato al doppio scopo di distillare , e di aerare l'Acqua, quale penso potersi innalzare in via economica, e senza discapito di sua buona qualità per ogni rapporto. [...] Con simile Apparato si potrebbe certamente garantire al Pubblico un'Acqua dolce, leggera, facilissima a digerirsi, all'Economia Domestica un'Acqua solvente le sostanze senza il minimo spreco, all'Industria un'Acqua la meglio atta a qualsiasi ramo d'applicazione (Saggio, p. 40 e 42).

Gaetano Sgarzi, Saggio d'analisi delle acque dolci potabili che servono alla Città di Bologna, Memoria letta all'Istituto delle Scienza li 9 Aprile 1840, Articolo estratto dai Nuovi annali delle Scienze Naturali di Bologna, luglio/agosto 1844
Collocazione: 17 Storia fisica. D. 42.