130 anni prima della pubblicazione del celebre romanzo L'amore
ai tempi del colera di Gabriel García Márquez,
l'avvocato Enrico Farnè, scrittore per diletto ("non
so scrivere come Massimo d'Azeglio", ammette), ambienta
una cupa storia d'amore nella Bologna atterrita dall'epidemia
del 1855. Le tragiche vicende di Teresina, destinata a morire
di colera tra le braccia dell'amato, sono solo il pretesto
per rendere omaggio alla figura del medico omeopatico Alfonso
Monti (Alfonso Monty nel romanzo) che curò e salvò
le figlie di Farnè colpite dal colera.
Le parti più interessanti del romanzo sono quelle
dove si descrive la vita quotidiana al tempo del colera, in
una città dove ogni attività era condizionata
dal timore del morbo. Si descrivono le processioni e le condizioni
miserevoli dei quartieri più colpiti, l'inquietante
andirivieni di cataletti che trasportano i malati e le speculazioni
di affaristi senza scrupoli sui rimedi considerati più
efficaci.
La prima illustrazione del romanzo, nell'antiporta, mostra
il popolo bolognese in subbuglio per il timore che l'epidemia
altro non sia che un avvelenamento di massa ordito dagli aristocratici,
con l'aiuto dei medici.
Il tema dell'avvelenamento ricorre in Italia per tutto l'Ottocento
durante le varie epidemie di colera, e si spiega con il bisogno
di individuare le cause o semplicemente un capro espiatorio,
di un evento del tutto incomprensibile e terrorizzante.
A tranquillizzare gli animi non contribuiva il fatto che molti
bolognesi benestanti fossero fuggiti dalla città e
che le zone più popolari e degradate fossero le più
colpite dal morbo.