FRANCESCO ARCANGELI. ANGIOLINO
Il mio primo ricordo di Schiavio è di qualità sonora:
si lega al colpo rotondo, echeggiante del pallone calciato da Angiolino
dentro la rete del Genova sul finire di una memorabile partita.
Avevo appena nove anni, e mio zio mi aveva fatto scendere dalla
tribunetta di legno, sussultante agli urli della folla, improvvisata
a uno degli estremi del vecchio campo dello Sterlino. Era finale
di campionato, Bologna- Genova 1924: il Bologna perdeva, aveva due
gol sulle spalle e la gente se ne stava quieta, rassegnata a qualche
commento brontolato amaramente, in fretta. Lo zio mi aveva fatto
scendere, perché ormai non cera più nulla da
fare per il Bologna e nulla da vedere per noi. Ma dimprovviso
scoppiò quel colpo sonante e mi trovai preso in un nero tumulto
di corpi agitati; qualche cosa che esplodeva continuamente: il grido
interminabile della folla che aveva ritrovato la sua voce e il suo
animo più violento.
Tornando di recente, dopo anni di assenza, a una partita di calcio,
mi sono stupito e deluso di trovare fra il pubblico tanta freddezza,
tanti bei ragionamenti sul gioco: anche lincitamento al vecchio
Bologna scendeva dalle grandi scale del Littoriale con una folata
più stanca, quasi sfiduciata. Sarà forse il ricordo
a ingrandire le proporzioni di quei tempi già abbastanza
lontani; eppure devessere vero che allora, intorno al quadrato
erboso e un poco avvallato dello Sterlino, si combattevano battaglie
di giocatori e di pubblico più acri e brucianti.
La partenza dei treni speciali, le entrate in campo delle squadre,
i colori delle maglie e gli scudetti, i nomi stessi dei giocatori
avevano una risonanza più alta, qualche cosa che attaccava
lanimo della gente ad ogni vicenda del dramma calcistico.
Antica provincia italiana che combatteva oscuramente, con una tenacia
sproporzionata allimpegno della posta apparente, le sue ultime,
patetiche lotte. Che commozione, che incontro di frusta letteratura
e di ardore primitivo in certi resoconti sportivi! Su quelle pagine
rosee o paglierine, che la memoria ricompone da un passato irrevocabilmente
diverso, si agitavano le immagini, i nomignoli, gli epiteti.
Le rondinelle bresciane, le bianche casacche vercellesi,
i diavoli rosso-neri, turbavano la mia fantasia infantile
quanto le pagine di Salgari. Dal buio che copre quegli anni aggallano
ancora, accanto a Yanez, alla Capitana del Yucatan, al Corsaro Nero,
i nomi, soprattutto, di quegli ungheresi che venivano, allora a
rinforzare le squadre italiane, a educarle alla tecnica danubiana.
Ancora, se di quella prima partita chio vidi, Bologna- Genova
1924, mi sembran presenti, con una chiarezza quasi sgomenta, certi
episodi (le entrate della testa lunga e rapata di De
Vecchi, il terzino del Genova che le platee avevano battezzato,
favolosamente, il figlio di Dio; i salti a gomitolo,
di una elasticità incredibile, del piccolo portiere De Prà;
lappostarsi paziente e minaccioso dellala genovese Santamaria
e la furia selvatica, da botolo, del bolognese Pozzi), pure, a restituirne
il tono quasi leggendario mi servon meglio i nomi; quello di Catto,
pronto, rapido come una discesa improvvisa, e quelli distesi in
un seguito sonoro, sillabato, pesante, della famosa mediana del
Genova: Barbieri- Burlando-Leale. Niente uguagliò ai miei
occhi il gioco di Schiavio.
Solo il suo stile e la sua figura mi fecero capire quanto di sano,
di coraggioso, di anticamente turbolento vi può essere nella
rissa sportiva; quanto, nello stesso tempo, di artistico.
Quella di Schiavio fu arte di improvvisazione, ma aperta, leggibile
in chiare note; di una evidenza popolare, di una violenza un tantino
melodrammatica.
Era già di scena quando gli undici del Bologna uscivano di
corsa dalla scaletta: con una certa emozione scoprivo sempre, immediatamente,
il suo passo; quella specie di ventre a terra, quel galoppo rattenuto
e ondeggiante, e pure continuamente assicurato al terreno. Ne risultava
una robusta, variata eleganza. Quel ritmo da cavallo governato da
un cervello pronto, era preparato al massaggio, allo scatto, al
tiro, come quello di qualsiasi altro centroattacco; ma isolava la
sua azione in un tempo distaccato in cui era difficile intuire,
per lavversario, la battuta darresto per lintervento.
A Schiavio non si risparmiavano critiche. Gli si imputava il difetto
di cercare luomo troppo ostinatamente e, ancor
più, quello di tener quasi sempre le spalle voltate alla
rete nemica in attesa del pallone.
Ma il suo gioco ritardato valeva il gioco danticipo degli
altri. Con quella caparbietà, con quella postazione, pareva
che Angiolino compromettesse la sorte di ogni attacco.
In realtà, non gli mancava quasi mai la velocità di
ricupero per rovesciare la situazione. Scoccava apertamente dallangolo
più difficile, senza che i difensori potessero farci nulla,
il passaggio allala, di solito alla sinistra, con una precisione
violenta, aizzante; oppure si rimangiava il ritardo giostrando a
galoppo capovolto, testardamente, fra le gambe degli avversari e
trovando quasi sempre lo spiraglio per mettere a segno il tiro.
Non era tiro troppo secco, né troppo studiato; ma variato,
improvviso e misuratamente violento.
Cera nelle sue risoluzioni di gioco la passione sincera di
certi tenori delle opere verdiane, quando arrivano allacuto:
quando, dopo un brano di luoghi apparentemente risaputi, si attende
- e pure non si prevede mai abbastanza - leffetto della romanza
col suo diapason di canto. Forse per questo i popolari
amavano smisuratamente Schiavio.
E ripeto che fu Schiavio a farmi amare ancora, per qualche tempo,
la sua squadra. Del Bologna fu lalfiere ostinato e intelligente,
quello che ne riassumeva il carattere più schietto. I suoi
gol facevano mareggiare le platee come un pelago: volgendo in alto
la testa si vedevano allora oscillare in cadenza, in cima alle scalee
del Littoriale, due o tre cartelloni che recavano una sua fotografia
ritagliata e applicata sul bianco: enorme fotografia che lo ritraeva
in atto di scoccare il tiro, con un chiaroscuro risentito a segnare
ogni fascio di muscoli, in una specie di macerata energia. Intanto
lappello Schia-vio, Schia-vio, batteva
come il cuore della moltitudine scamiciata.
I capolavori calcistici di Schiavio furono molti e non certo a tutti
ho potuto assistere; ma ne ho ancora abbastanza a mente per darne
un breve florilegio. A cominciare da quella azione della partita
Bologna-Torino 1929 in cui Angiolino partì col
pallone da lontano e arrivato, ondeggiando a finte continue, tra
gli avversari, a qualche metro dalla porta, decise di fare il punto
con la forza: vedo ancora il portiere Bosia, sbalordito dalla violenza
di quellattacco frontale, protendersi vanamente allindietro
per arrestare il bolide che gli rovesciava i guantoni e veniva a
morire alle sue spalle.
Quando voleva, Schiavio era fra i più veloci anticipatori
che si vedessero sui campi di gioco: dirò della sua prontezza
nel raccogliere il rimando a parabola che gli giunse, una volta,
da un terzino. Il pallone aveva appena toccato terra che egli, in
corsa, con un colpo misterioso fra il tacco e la costola esterna
della scarpetta sinistra, già lo aveva lanciato, con una
straordinaria precisione, allala; continuando la corsa fu
in tempo a raccogliere la centrata e a tirare. Di queste
abbreviature, connubi segreti dellintelligenza con listinto,
se ne videro parecchie in una famosa partita Italia-Germania, quando
gli fu affiancato Meazza: fra loro le intese furono mirabili.
Sembrò di leggere un manuale di calcio, ma rinnovato ad ogni
pagina dallarte. I rozzi, tenaci tedeschi li assediavano ferocemente.
A un certo momento si vide Schiavio cadere sotto un grappolo di
maglie bianche e di calzoncini neri. Il grappolo si agitava sgarbatamente;
ma, dopo un attimo, il pallone uscì dal mucchio. Tagliato
e lento era stato il tocco che Angiolino era riuscito
a imprimergli tra quella selva di polpe: lala destra italiana
se lo guardò venire, quasi guidato dallintuizione incredibile
del centroattacco, liberato e ruotante come una bomba che prilla
e sta per scoppiare, sul piede.
Schiavio non rinunziò mai al suo stile. Per questo la sua
carriera fu forse, relativamente, più breve di quella di
altri calciatori. A un certo momento comprese la necessità
del ritiro, e si ritirò. Delle sue ultime partite mè
rimasta unimpressione tra penosa e ammirata. Le gambe, che
avevano troppo a lungo cercato luomo, che erano
state operate e inceronate, non gli rispondevano più. Quelle
che erano state le felici libertà, le sprezzature del suo
gioco apparivano ormai come vizi, se pur nobilmente portati. Fra
i comandi del cervello e lesecuzione lo scatto si velava,
si frapponeva un attimo di ritardo: lattimo che segna inevitabilmente
la decadenza dun atleta. Pure non rinunciò, chio
mi ricordi, a una sola finta, a una sola apertura di tacco; portava
il suo stile, ormai scomposto e rilassato nelle sue giunture che
un tempo avevano fatto unità, come un peso di cui non ci
si può scaricare.
Nellultimo incontro che gli vidi giocare era pallido: un pallore
fiero, profondo, sul quale si marcavano più risolute le sopracciglia
nere e i tratti magri e imperiosi del suo volto di ragazzo intelligente.
Sulle gradinate non oscillavano più i cartelloni con la sua
immagine. Era inverno, la partita interessava poco, la gente si
accontentava di un silenzio discreto e quasi costante. In quellaria
gelata vedo ancora Schiavio atteggiarsi nellultima rovesciata,
eseguita a piede rattratto; ma fu troppo breve, e mandò il
pallone agli avversari. Ricordo anche che nelleseguirla teneva
le spalle voltate alla rete nemica.
Il testo è stato pubblicato per la prima volta su La Gazzetta
di Parma del 10 maggio 1942, quindi in Bologna incontri, n. 5 (1984),
pp. 35-37.
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